di Tonino Scala
“Storie di tutti i giorni vecchi discorsi sempre da fare, storie ferme sulle panchine in attesa di un lieto fine”…
Cantava Riccardo Fogli, cantava Storie di tutti i giorni da una vecchia Grundig ricoperta di alluminio con i tasti neri e la manopola grande, posizionata nel salone-camera da letto-soggiorno-cucina di via Napoli, dove abitavamo.
Era domenica, faceva caldo. Niente mare.
A casa mia al mare non si andava la domenica. Tutti i giorni tranne la domenica. Perché? Non me lo chiedete, ma era così. La domenica, il giorno di Ferragosto e il 24 giugno giorni di riposo dalle acque “limpide e cristalline” di Foce Sarno, alle sette scogliere, dove oggi c’è Marina di Stabia, il porto.
Alle 8,30 ero già in strada. Strada mo’… nell’androne di un palazzo in costruzione dove mi divertivo a lanciare a palla vicino al muro e a sognare.
Tiravo, il muro rispondeva e sognavo.
Sognavo, il muro rispondeva e…tiravo.
Avevo solo otto anni. Ricordo ogni cosa. Ogni momento. Ogni istante.
Tiravo, il muro rispondeva. Dalla mia bocca una voce nasale che doveva, ‘nacpe a me, somigliare a quella di Nando Martellini e un sogno che faceva olè.
Ero piccolo, molto piccolo. Per me la Spagna era lontana, molto lontana. La associavo ad un vestito di carnevale, rosso, che una mia amica di scuola aveva messo qualche mese prima di quella domenica calda alla festa a scuola.
Fino a quell’estate non amavo il calcio. In quel portone in costruzione mi divertivo a giocare a tennis, oggi diremmo squash, ai miei tempi era un tennis solitario. Mi piaceva Panatta, seguivo gli scontri tra McEnroe e Borg.
Poi i mondiali. Quelli di calcio e…
Zoff, Gentile, Cabrini; Oriali, Collovati, Scirea; Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani.
La prima filastrocca imparata a memoria non per studio!
Un amore scoppiato pochi giorni prima, il 23 giugno se non sbaglio, dopo un pareggio con il Camerun che diede all’Italia possibilità di passare il turno. Ricordo ancora i giocatori camerunensi piangere mentre i cortei, i caroselli di auto iniziavano a girare per il quartiere.
L’ultima volta che eravamo scesi in strada era stato per il terremoto, qualche anno prima. Mai avrei immaginato di correre per le scale, per uscire dal portone, per guardare lo sventolio di bandiere tricolori. La paura di quel tremolio di anime e pietre, era ancora scolpito nella mia mente, forse non si cancellerà mai. Scese anche mamma. Vide nei miei occhi la gioia e il giorno dopo con un po’ di fodera, sapeva cucire, fece anche a me la bandiera che posizionò sulla vecchia mazza di una scopa. Non la misi come tutti fuori al balcone, la tenevo in casa e ogni tanto la portavo giù e la sventolavo.
Papà amava Antonioni, mamma Cabrini: chissà perché! Ancora nessuno era entrato nelle mie simpatie. Certo, mi piaceva Zoff, ma solo perché mi dava sicurezza. Poi l’esplosione del Pablito con il Brasile e…il mio cuore si riempì.
Era domenica dicevo, faceva caldo, giocavo con un vecchio Supersantos bucato mentre dai balconi si sentivano radio cantare: Celeste nostalgia, Ballo ballo, Felicità, Vado al Massimo.
Parlavo, da solo, tiravo, il muro rispondeva e io imitavo le pause vocali di Nando Martellini.
Papà con un piluscio puliva la sua auto. La sua prima ed unica auto nuova. Una fiat 127 azzurra con 5 marce che aveva ritirato dal concessionario il giorno prima. Mancava ancora l’autoradio, ma c’era una cassetta, falsa ovvio, di Franco Battiato, che avevamo comprato su una bancarella. Quella cassetta nei mesi successivi la consumeremo: Bandiera Bianca, Cuccuruccucù, Centro di gravità permanente…Nel cofano della macchina nuova un sacchetto di carbonella per preparare la carne su una fornacella arrugginita: era domenica!
Mia sorella giocava con le bambole, il cane, Vichi, un pastore tedesco, annusava non so cosa e ogni tanto mi portava una palla da tennis che avevo perso chissà quando.
Mamma cucinava. Preparava il ragù e il prestofatto mentre ascoltava la radio che passava una canzone di Drupi.
“Ma come è grande questo mare da guardare soli…”
Son passati 40 anni da quella domenica calda. Sono nostalgico, lo so.
Mi manca non quella nazionale, non quei giorni, ma quella serenità, quella che solo un bambino che gioca a calcio e improvvisa una telecronaca sui suoi tiri vicino al muro di un palazzo in costruzione.
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