Alle 8,55 circa del 16 marzo 1978, la Fiat 130 targata Roma L59812, guidata dall’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci e con a bordo l’onorevole Aldo Moro e il capo della sua scorta personale, maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, mentre percorreva via Mario Fani, seguita dall’Alfetta targata Roma S93393, guidata dalla guardia di P.S. Giulio Rivera e con a bordo la scorta (brigadiere di P.S. Francesco Zizzi, guardia di P.S. Raffaele Iozzino), veniva improvvisamente bloccata da una Fiat 128 bianca, di tipo familiare, targata CD 19707, che retrocedeva da via Stresa verso via Fani: arrestatasi per l’inopinato impedimento, l’auto dell’onorevole Moro veniva tamponata dall’autovettura di scorta.
Immediatamente dalla Fiat 128 scendevano gli occupanti che, dispostisi ai due lati dell’auto dell’onorevole Moro, aprivano il fuoco contro i due carabinieri, Nello stesso tempo quattro individui, che indossavano divise del personale di volo dell’Alitalia, armati di pistole mitragliatrici, che avevano estratto da una grossa borsa nera ed appostati sul lato sinistro della strada, aprivano a loro volta il fuoco contro i militari che occupavano le due autovetture. Prima che potessero reagire, venivano uccisi i due autisti e il maresciallo Leonardi. La guardia di P.S. Iozzino, lanciatasi fuori dall’autovettura impugnando la pistola d’ordinanza, riusciva ad esplodere qualche colpo, ma veniva subito raggiunta ed uccisa dai proiettili sparati da altri due individui che si trovavano appostati tra le vetture in sosta. Il brigadiere Zizzi veniva gravemente ferito e decedeva poco dopo al Policlinico Gemelli ove era stato trasportato morente. Almeno altri due terroristi sorvegliavano a strada, disposti uno lungo via Fani, dietro autovetture posteggiate, l’altro, una donna, all’incrocio con via Stresa.
L’onorevole Moro, rimasto leggermente ferito, veniva prelevato dalla sua autovettura e caricato su una Fiat 132 blu, sopraggiunta in quell’istante: essa si allontanava subito, con a bordo i quattro terroristi travestiti da dipendenti dell’Alitalia, in direzione di via Trionfale, seguita da altri due vetture Fiat 128, quella bianca che era retrocessa da via Stresa e un’altra blu, nonché da una moto Honda. Su tali mezzi avevano preso posto i complici degli aggressori che, durante l’aggressione, avevano dirottato il traffico servendosi di palette di segnalazione delle forze di polizia e seminato il panico sparando anche in direzione delle persone che avevano assistito alla scena. Le successive indagini avrebbero permesso di accertare che, poco dopo, l’onorevole Moro venne trasferito dalla 132 blu su un furgone Fiat 850 bianco munito di sirena che, dopo aver percorso via De Carolis, imbocco via Damiano Chiesa in direzione della Pineta Sacchetti.
Dalle varie testimonianze può ritenersi che l’itinerario probabilmente seguito dagli aggressori durante la fuga sia stato il seguente: via Stresa, piazza Monte Gaudio, via Trionfale, via Carlo Belli, via Casale de’ Bustis, via Massimi. E’ presumibile che essi abbiano poi utilizzato qualche base di appoggio nelle vicinanze di via Licinio Calvo per trasbordare il prigioniero, abbandonando le auto dell’agguato.
E’ emerso dall’indagine giudiziaria che i membri del commando che indossavano divise da personale di volo erano giunti a piedi in via Fani, dove si erano appostati di fronte ad un bar, quel giorno chiuso, disponendosi a coppie brevemente distanziate tra loro. E’ stato altresì accertato che era stato immobilizzato in via Brunetti, squarciandone le gomme, presumibilmente durante la notte precedente, l’autofurgone di un fioraio che usava sostare in via Fani.
2) Il significato politico.
Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, unico caso di sequestro e di omicidio di un uomo di Stato nell’Europa del dopoguerra, ha coinvolto, in un’unica, tragica vicenda, la sorte della vittima nonché valori, principi, processi politici interessanti l’intera società italiana.
Moro fu ucciso mentre era impegnato da protagonista in una difficile fase politica che vedeva il realizzarsi di una convergenza di forze democratiche diverse (DC, PCI, PSI, PSDI, PRI) diretta non soltanto ad assicurare al Paese un governo in grado di uscire dall’instabilità conseguente alla crisi degli equilibri politici sui quali si era fondata la lunga esperienza dei governi di centro-sinistra, ma soprattutto a superare radicate pregiudiziali tra forze politiche tradizionalmente antagoniste al fine di creare le condizioni per una democrazia compiuta.
L’Italia repubblicana, nell’interpretazione di Moro, aveva attraversato due distinte fasi politiche: la prima caratterizzata da una alleanza tra DC e partiti di centro; la seconda caratterizzata dalla collaborazione di governo tra DC e Partito socialista italiano e da profonde innovazioni rispetto al periodo precedente.
Questa seconda fase, iniziata nei primi anni sessanta, era giunta, sempre secondo Moro, al suo esaurimento negli anni 1974-1975, durante i quali si erano verificati grossi avvenimenti politici, come il referendum sul divorzio (1974), le seconde elezioni regionali (1975) e la crisi del governo Moro – La Malfa.
A giudizio di Aldo Moro stava quindi aprendosi una terza fase, nella quale andava posto “il problema del Partito comunista, del difficile accesso al potere delle masse popolari che in esso si riconoscono” (discorso al XIII congresso della DC).
Moro, come ebbe a dire nel suo discorso ai Gruppi parlamentari della DC del febbraio 1978, riteneva che dalle elezioni politiche del 1976 erano usciti “due vincitori” e che “due vincitori in una battaglia creano certamente dei problemi”. Il Paese non avrebbe sopportato in quel momento “un grave scontro, una dissociazione radicale”, quale si sarebbe avuta se il Partito comunista italiano e la Democrazia cristiana avessero assunto un atteggiamento di rottura.
Questo progetto non esprimeva una astratta e personale interpretazione della realtà italiana, ma rispondeva all’esigenza di tradurre in atti concreti quanto a livello di dibattito politico era andato maturando nei due partiti, in altre forze politiche e in larghi settori dell’opinione pubblica.
Non era la prima volta che Moro si assumeva il compito di gestire una fase nuova e difficile giacché, come segretario della DC, era già stato l’artefice dell’incontro con i socialisti. Grazie appunto alla sua incisiva azione politica egli era diventato il punto di equilibrio tra tutte le forze che si sentivano rappresentate dal suo partito: era perciò l’uomo della continua mediazione ma anche dell’attenzione a quanto di nuovo si manifestava nella società civile. Peraltro il suo ruolo e la preminenza della sua posizione lo avevano portato ad essere oggetto di critiche da parte di chi, all’interno o all’esterno, non condivideva le sue posizioni: e di ciò egli era ben consapevole.
Mentre la vicenda politica italiana andava cosi evolvendo, l’organizzazione delle “Brigate Rosse” sviluppava una linea di intervento nella vita del Paese diretta ad affermare il primato della lotta armata sul confronto democratico, la rottura del rapporto tra movimento operaio e democrazia politica, lo scatenamento della guerra civile.
Per conseguire questi obiettivi le BR si muovevano lungo varie direttrici: attaccare i quadri intermedie di base della DC, colpire quei magistrati e quei pubblici funzionari che si erano più impegnati ad assicurare l’efficienza e la credibilità dello Stato, ferire o uccidere gli uomini degli apparati di sicurezza per scompaginarli, attaccare e screditare le organizzazioni storiche, politiche e sindacali, del movimento operaio al fine di logorarne i rapporti con le masse.
Progetti di destabilizzazione eversiva erano peraltro maturati sia negli anni precedenti sia in tutto il decennio degli anni settanta, anche al di fuori delle BR con i tentativi di carattere golpista e con le stragi e gli attentati del terrorismo nero. Ma le BR e le organizzazioni ad esse affini avevano mantenuto come propria permanente caratteristica l’obiettivo di scatenare la guerra civile tentando di portare grandi masse popolari sul terreno della lotta armata.
A partire dal 1975, con la risoluzione della direzione strategica dell’aprile, le BR individuavano specificamente nella DC l’obiettivo dei loro attacchi armati. Secondo la loro interpretazione, in Italia si era costituito un blocco di potere, cinghia di trasmissione delle decisioni delle società multinazionali, comprendente partiti, sindacati e istituzioni. Asse di questo blocco, nello schematismo brigatista, era la Democrazia cristiana. Perciò le BR, mentre indicavano, in particolare nelle fabbriche, le tradizionali organizzazioni del movimento operaio come traditrici, attaccavano con le armi le sedi e gli uomini della Democrazia cristiana.
VIII LEGISLATURA
RELAZIONE DELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SULLA STRAGE DI VIA FANI SUL SEQUESTRO E L’ASSASSINIO DI ALDO MORO E SUL TERRORISMO IN ITALIA
(Legge 23 novembre 1979, n. 597)
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