Un romanzo, un eco-noir che si ispira a vicende reali. L’autore racconta la storia di un’indagine giornalistica sui rifiuti tossici che attraversano il Mediterraneo a bordo di navi che fanno la spola con l’Africa. Questo bel libro sarà pubblicato a puntate su questo sito: un regalo dello stesso autore che ringraziamo di vero cuore.
Ecco a voi il primo capitolo:
13 DICEMBRE 1995
Mappa di affondamenti di navi con sospetti di carichi velenosi
Il caffè era caldo. Lo aveva desiderato da prima di Viareg-gio, ma non si era fermato, voleva arrivare al più presto.
Finalmente l’autogrill, accese la freccia e si arrestò: Magra ovest. La bevanda gli aveva lasciato un retrogusto amaro in bocca e lo zucchero aggiunto non era servito ad aggiustarla, ma finì di berla.
Era stanco, i muscoli e le ossa gli dolevano, sbadigliò. Si sentiva intorpidito e aveva voglia di dormire, fare una doccia calda e dormire. La stanchezza lo seguiva ormai da tempo, doveva raggiungere il bagno, lavare il viso. La scossa dell’ac-qua fredda corrente lo avrebbe ridestato allontanando la stan-chezza, era un’esperienza fatta tante altre volte ed era, sempre, stato un rimedio miracoloso.
Dopo un viaggio interminabile la meta era vicina. Tra poco avrebbe messo le mani e gli occhi sui registri navali e forse sarebbe riuscito a sapere collegando partenze, carichi, navi. L’indagine avrebbe compiuto un passo in avanti, la speranza era grande come la sua determinazione.
Doveva controllare oltre cento navi, nella cartella aveva se-gnate già le rotte di molte di esse, ma occorreva essere sicuri ed aveva bisogno di documenti, non poteva più basarsi solo su supposizioni.
L’amaro in bocca era aumentato e non riusciva a capirne il motivo. Non aveva preso altro che il caffè. Tutto divenne sfuocato, la sensazione si trasformò in un nodo alla gola e in un pugno allo stomaco, avvertiva uno strano senso di vuoto mentre ogni parte del corpo aveva sete di aria.
Chiuse gli occhi e sentì la vita allontanarsi.
In un attimo gli passò nella mente la famiglia e l’intera esi-stenza, come in un film visto al contrario, dall’inizio alla fine, con un’accelerazione fantasmagorica, come se avesse premuto il rewind sulla sua vita.
Gli sembrava di essere in una di quelle scene in cui il corpo viene proiettato nel tempo e precipita in un imbuto, a velocità sempre maggiore, fino a scomporsi in tanti atomi, ma il suo corpo, a differenza di quanto avveniva nei film, rifiutava di ricomporsi.
Le prime immagini si succedettero in maniera nitida, la mamma e i suoi abbracci, il padre ed il sentimento di sicu-rezza, gli amici, la moglie, i figli: moriva. Lo percepì in un lampo, adesso sapeva. Gli attimi che lo stavano portando alla fine erano densissimi, brevi, ma infiniti. Il tempo si era fer-mato, la moviola dei pensieri era ancora più lenta di quella dei replay delle scene dei goal o delle azioni dubbie nelle partite di calcio.
Era stato il caffè, non aveva più dubbi. Non ricordava di avere bevuto o mangiato altro, ne era sicuro. Sentiva il dolore riempirgli il torace e il cuore battere all’impazzata. Avrebbe voluto fermarlo, far cessare il malessere e riprendere il con-trollo del corpo. Sarebbe bastato poco, un atto di volontà per riappropriarsi di se stesso e colmare la distanza che lo separava dalla vita; una sensazione orribile.
I ragazzi avevano ancora bisogno di lui. Con malinconia pensò alla loro vita. Sarebbero cresciuti senza il loro padre, non li avrebbe più visti, non ne avrebbe seguito la crescita, non avrebbe partecipato alle loro gioie, non sarebbe stato pre-sente e di sostegno ai loro dolori, alle loro indecisioni: erano ancora piccoli.
Il panico gli attanagliò la gola e una paura totale, che oc-cupava ogni suo muscolo, gli riempiva l’animo soffocandolo. Voleva gridare, chiedere aiuto, comandare ai propri polmoni di respirare. Era l’aria marina piena di iodio quello che deside-rava e il vento, che riempiva la vela della sua barca sferzando il suo volto, era quello che cercava. Perché l’ossigeno dello Stretto insieme alle brezze del suo mare per il quale aveva lottato non arrivava, non gli riempiva i polmoni, gli smuoveva i muscoli? Il mare che aveva cercato disperatamente di difen-dere perché non gli portava sollievo?
Nel locale poche persone oltre ai due baristi.
Sentiva il discorrere di una giovane coppia, le voci sommes-se dei due uomini che erano vicino a lui al banco, percepiva lo sguardo preoccupato di un anziano signore, la sua muta do-manda. Non riusciva a rispondere. Le parole non gli uscivano di bocca, la lingua era impastata e anche gli occhi erano vuoti; non poteva chiedere aiuto nemmeno con lo sguardo.
Tentò di riaversi, cercò di controllare il cuore, di respirare: era solo un malessere. Era sicuro che riprendendo coraggio si sarebbe sentito meglio.
Assunta, giovane donna sua sposa e compagna, il calore del suo corpo, il suo sorriso e gli occhi ridenti e parlanti, era là con lui. Era comparsa nei suoi pensieri, ma neanche lei pote-va più trarlo in salvo. Comprese che non avrebbe più goduto della sua presenza, non avrebbe più riempito la mente con la sua immagine, non avrebbero più giocato con gli sguardi e sorriso mentre gli occhi s’incrociavano. Assunta… era lungo morire. Alcuni secondi prima aveva solo un gusto di amaro in bocca e adesso il cuore stava per fermarsi, i ricordi diven-tavano sfuocati.
Era giovane e in buona salute e pensava a sé stesso come immortale: il tempo della fine non aveva data, non era mai stato presente nella sua testa e la morte non faceva parte del suo futuro. Non aveva mai considerato l’ipotesi di distaccarsi dalla vita, di essere privato dei giorni a venire, colmi dei suoi affetti e del mare, suo padre adottivo. Si sentiva nella pienez-za delle forze.
Come avrebbero fatto senza di lui? Subito pensò che sareb-bero andati avanti e cresciuti lo stesso e, dopo il vuoto della sua mancanza, sperava avrebbero lentamente messo da parte le angosce, presi e trasportati dal gioco della vita. Era tragico e doloroso sapere che sarebbe andato così, ma lo aiutava il pensiero che una parte di sé avrebbe vissuto nei figli.
Si era fermato, la stazione di servizio era ad appena venti chilometri dalla meta. Il viaggio era stato lungo dalla Cala-bria e doveva intraprenderlo prima di Natale, prima che tutto scomparisse. Lo percepiva doveva arrivare prima delle feste, sapeva che loro avrebbero fatto sparire i registri; dovevano farlo, era l’unico modo per far perdere le tracce e non consen-tire a nessuno di risalire a loro.
La pioggia lo aveva accompagnato fin dopo Roma, una pioggia battente che lo aveva costretto a guidare con pruden-za, ad aumentare l’attenzione, a consumare energie nervose sfinendolo.
Assunta non voleva che partisse, non riusciva a capire la ra-gione di tanta fretta. Gli aveva detto di aspettare che ritornas-se sereno o almeno che cessasse la pioggia. Il lavoro poteva attendere, la famiglia era più importante.
Era solo, nessuno doveva sapere dei suoi spostamenti. La macchina, una Tipo bianca dell’esercito, viaggiava con una targa di copertura. La prudenza era indispensabile. Il giudice gli aveva suggerito di partire all’improvviso, di non dire nien-te, di non far sapere dove andava. Gli aveva raccomandato di non portare nessuno con sé. Il pericolo era reale, ma lui non avvertiva nessuna pressione, non vedeva ombre minac-ciose avvicinarsi e sorrideva delle preoccupazioni di Assunta. L’aveva rassicurata come le altre volte e lei, come al solito si era lasciata convincere dalla sua premura. Il viaggio era sicuro le aveva detto. L’avrebbe chiamata e così aveva fatto durante ilrso. Arrivato in città l’avrebbe richiamata per avvisarla e sentire la sua voce, percepirne la dolce cadenza rassicurante.
Era sicuro delle proprie mosse: li avrebbe inchiodati alle loro responsabilità. I ladri di futuro sarebbero stati fermati e il magistrato avrebbe avuto carte a sufficienza per emettere i primi mandati di arresto.
La rete stava per chiudersi e dentro sarebbero rimasti, oltre ai soliti pesciolini, anche gli squali e sarebbe stato lui a tirarla su: voleva guardarli negli occhi mentre issava la rete. Dove-va impedire che lo scandalo continuasse e che i suoi figli e gli altri ragazzi venissero minacciati da tumori e leucemie, li avrebbe fermati.
Gli mancava l’aria, barcollava vistosamente. Cercò di anco-rarsi ad una di quelle isole presenti nei bar dell’autostrada.
Scivolò lentamente e crollò a terra.
Adesso le immagini si fissavano nella sua mente, non scor-revano più.
Lo avevano raggiunto ad un passo dalla meta, lo avevano raggiunto e mandato al tappeto: poi il buio e il silenzio.
Al tonfo del corpo sul pavimento seguì il trambusto nella sala.
Il vecchio signore si avvicinò rapidamente e gli sollevò il capo. Si era accostato anche uno dei due baristi.
Cercarono di destarlo, lo scossero prima con delicatezza, poi con forza, gli slacciarono il nodo della cravatta ma non riuscirono a fargli riprendere i sensi.
«Chiama il 118, sbrigati! Sembra essere qualcosa di grave».
Così si rivolse al collega rimasto dietro il banco.
Si avvicinarono rapidamente anche i due avventori che era-no prima al banco. Con fare sicuro e professionale uno dei due si presentò come medico: «Sono il dottor Anselmi prima-rio del reparto di cardiologia dell’Ospedale Dei Padri Eremi-ti di Milano. Fate largo, lasciatelo respirare, permettetemi di controllare». Il medico gli sentì il battito.
«Presto, chiamate l’ospedale più vicino, chiedete l’interven-to dell’ambulanza. Questo poveraccio deve essere subito rico-verato, prima arriva in un centro attrezzato meglio sarà per lui».
Iniziò a praticare il massaggio cardiaco, lo faceva con gran-de energia e con ritmo regolare.
«Pasquale corri in macchina, prendimi la borsa. Dai sbri-gati». L’amico uscì rapidamente dal locale. Anche la giovane coppia si era avvicinata.
La donna chiese con preoccupazione «Respira?» e dopo una breve pausa «È vivo?».
Il medico continuava il massaggio e non rispose, era trop-po impegnato per dedicare attenzione ad altro ed impiegare energie per disperdere la paura che montava nel bar.
La voce della donna divenne pressante: «Dottore, la prego, risponda è ancora vivo?». L’ansia si avvertiva dal suono della voce ed esigeva una risposta, solo una risposta avrebbe pla-cato la paura.
Il compagno gli posò un braccio sulla spalla, con tenerezza: «Fai lavorare il medico. Sarà un malessere passeggero, vedrai che tra poco si riprenderà. A volte la fortuna è amica: meno-male che nel bar era presente un dottore. Di solito prima che arrivi qualcuno uno è già morto. Non arrivano mai, sempre in ritardo e solo quando non c’è più niente da fare».
«Cosa hanno detto dall’ospedale – chiedeva l’anziano si-gnore al barista spaurito – Arrivano? Quanto impiegano? Ci vorrà molto?».
Pasquale rientrò nel locale. «Gaetano ecco la borsa con den-tro i tuoi strumenti».
«Aprila. Nella sacca piccola trovi una siringa all’interno, sul fondo delle fiale con scritta adrenalina, prendile. Anzi no, faccio io. Tu continua a praticare il massaggio al mio posto. Fai una pressione forte e regolare sul petto, non ti fermare. Mi raccomando ritmo regolare, forte pressione».
Il medico estrasse la siringa, aspirò il liquido dalla fiala e lo iniettò nel braccio.
«Ha un arresto cardiaco. L’adrenalina dovrebbe riattivare il battito. Pasquale continua il massaggio. È questione di un paio di minuti, dovremmo avercela fatta».
Ascoltò il cuore con lo stetoscopio, il suo viso si rabbuiò. Ascoltò di nuovo ed un senso di sorpresa si dipinse sulla sua faccia. «Non si riprende». Estrasse un’altra fiala.
«Lidocaina: proviamo con questa. Comincio a pensare che non ce la farà. Il battito è quasi assente».
Iniettò il nuovo farmaco e riprese il massaggio. Il medico si fermò nel silenzio della sala, la morte pervadeva ogni cosa. Una presenza nuova, angosciante che si annunciava a tutti, li rendeva assenti e spauriti.
«Mi dispiace è morto: arresto cardiaco. Un uomo giovane, apparentemente sano: è stato sfortunato, forse in ospedale lo avrei potuto salvare».
L’anziano signore si chinò sul corpo esanime e chiuse deli-catamente le palpebre al morto.
«So che mi chiedevi aiuto e volevi dirmi qualcosa di impor-tante, ma non sono riuscito a capire che le parole non poteva-no uscire dalla tua bocca. Non ti sono stato utile e ti auguro un viaggio felice nel mondo delle anime sperando che la tua giovinezza non ti trattenga come ombra ancora tra noi».
La donna piangeva lentamente ed il compagno cercava in-vece di consolarla. I due baristi erano impietriti e non sape-vano cosa fare.
«Gaetano, occorre avvisare qualcuno, chiamare la polizia, fare qualcosa. Sei proprio sicuro? È morto? Non puoi fare niente?». L’amico attendeva una risposta impossibile.
Il medico scosse la testa, i suoi cenni negativi fermarono le domande.
«Chissà da dove viene, chi sarà? – pensava la donna – Avrà una famiglia? Forse dovremmo sapere chi è. Avrà dei docu-menti, dei numeri telefonici. Potremmo avvisare i suoi o sarà solo, senza nessuno».
Una punta di tristezza le penetrò l’animo a questo ultimo pensiero
«Nessuno dovrebbe morire lontano da una mano amica, da una voce cara. Non lo vorrei per me».
Il medico frugò nelle tasche del giaccone e ne estrasse un portamonete e da esso una patente.
«Fragalà Giuseppe nato ad Africo il 12.01.1960 residente in Reggio Calabria, professione commissario di pubblica sicu-rezza».
«Un commissario – mormorò l’anziano signore – Un calabrese, chissà perché era qua, così lontano dalla sua terra?».
Si sentiva il suono della sirena, sempre più forte e vicino.
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