di Tonino Scala
Un libro a dir poco devastante. Domenico Starnone convince e lascia un segno fin dalla prima riga: “Se non te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”. In queste parole la rabbia di una moglie abbandonata, scritto in prima persona, al femminile. Una cosa che sembra fatta apposta per continuare ad alimentare la leggenda che dietro la scrittrice Elena Ferrante ci sia, lui, Domenico Starnone. Lo scrittore napoletano ha più volte smentito, al punto da far inserire in una sua biografia: non sono Elena Ferrante. Dovremmo crederci se a dirlo è lui, anche se Lacci sembra il seguito de “I giorni dell’abbandono”. Una storia spietata con un rumore assordante che entra e ferisce lo stesso lettore non solo chi vive storie simili. Il rumore del matrimonio spezzato, ma anche il rumore di lacci invisibili legati tra loro che rischiano di farti inciampare. Lacci che diventano anche il modo per aprire un dialogo con quei figli che quasi non ti considerano più, per loro sei diventato un estraneo. L’allacciarsi le scarpe come il padre, un modo per tornare a parlare. Quel gesto quotidiano, stupido, banale, è una porta per tornare ad una connessione sentimentale. Un libro lancinante e veloce, dove tutto scorre anche la vita, i sospiri, le urla domestiche. Un legame che diventa malefico, sadico, vendicativo che non fa respirare. Un legame che accompagna una vita troppo breve. Snello e profondo, scorrevole e riflessivo, un libro che entra e segna, fa male. Sono contento di averlo letto, di averlo vissuto, di averlo divorato. Una storia vera, che comunemente si sente, ma di cui non conosci, se non lo vivi in prima persona, il dolore, la profondità e la precisione! Personaggi assolutamente reali, in cui puoi specchiarti: questa donna comprensibilmente ferita, che non si capacita, le minacce, i ricatti morali, la crudeltà con cui “pretende” la sua vita matrimoniale…
Il sacrificio di questo uomo che spinto dal senso di colpa, da lacci invisibili metafora di una vita negativa e spietata, schiacciato dal suo fallimento e da quello che crede di aver causato agli altri, si sente di dover rimediare in qualche modo…
Quanto e cosa siamo disposti realmente a rischiare per quello che ci fa star bene e ci rende vivi? E a cosa siamo disposti a rinunciare a causa di quel senso sadico del dovere che ci calpesta e ci perseguita per tutta la vita? Un bel libro, una bella scrittura, un racconto che appassiona. L’amore, il matrimonio, le crisi, l’abbandono, il ritorno, i figli, tante cose con le quali tutti, direttamente o indirettamente, nella nostra vita prima o poi faremo i conti. Bello lo stile, geniale i vari punti di vista, quello della donna, del marito, dei figli. Un libro diviso in più parti, ognuna è uno sguardo di uno dei protagonisti di questa storia d’amore e di convivenza, e perché no anche di convenienza, che danno alla vicenda un tono semplice e complicato allo stesso tempo, rendendola bella e ingarbugliata, minimale e complessa… come la vita. Vanda e Aldo sono una coppia come tante, settantaseienne “fintamente energica” lei, settantaquattrenne “fintamente svagato” lui. Apparentemente una vita serena, in realtà due vite rattrappite dalla paura e dalla perdita: la riconciliazione è molto più devastante dell’abbandono. Un dolore che non passa che resta nonostante la riconciliazione. un libro che vi consiglio di leggere per come è scritto bene e per com’è profondo.
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