di Tonino Scala
La chiamano “storia leggendaria”, ma in fondo è il racconto di una vita semplice, provinciale, di chi sognava il colore pur conoscendo solo il bianco e nero. Una vita fatta di sabati al bar, di motorini Sì e di Walkman che gracchiavano canzoni su cassette consumate. È la storia di chi sognava di lasciare la noia di quartiere per la città, quella luminosa e lontana, la storia malinconica di chi inseguiva l’emozione, attraversando un labirinto di emozioni e suoni. Si parte dalla periferia, si passa dalla cameretta con poster sbiaditi di rockstar, per poi ritrovarsi per caso in un letto che potrebbe essere quello di Sandy Marton, o in una radio con i Metallica che improvvisamente appaiono come apparizioni.
Sogni realizzati o meno, sogni che diventano realtà tra dubbi e insicurezze, di chi voleva fare l’impossibile, di chi si sentiva impacciato e allo stesso tempo onnipotente.
Lo confesso, non ascoltavo gli 883: era un genere lontano, mentre io mi perdevo nelle note di Vasco, di Pino Daniele, dei Doors, dei cantautori che raccontavano la mia ribellione. Ma quella musica, quella degli 883, era comunque la colonna sonora dei miei anni. Era nell’aria, e, anche senza volerlo, mi è entrata sottopelle.
Ogni venerdì, con ogni episodio della serie, rivivo un pezzo di me. Momenti spensierati in cui ci sentivamo invincibili e pieni di sogni da conquistare, in cui la nostra città poteva essere il centro dell’universo e al tempo stesso un posto da cui scappare. Ogni stabiese sa come si può amare il proprio luogo al punto di voler partire per poi sempre ritornare, lasciarsi coccolare dal conosciuto, dal sicuro. Questa storia, pur parlando di Pavia, potrebbe essere la mia, la nostra.
Il regista, come in Mixed by Erry, ci riporta a quei momenti. Ci fa rivivere quegli anni che sapevano di entusiasmo e promesse.
E poi Hanno ucciso l’Uomo Ragno. Un inno, nato inconsapevolmente, per una generazione senza social, in un mondo in cui per conoscere la verità bisognava affidarsi ai giornali. Per tanti quell’Uomo Ragno non era un musicista come nella serie, ma un simbolo: era il Falcone di cui avevamo letto sulle pagine di cronaca, l’uomo che era stato ucciso per il suo coraggio. Non avevamo capito subito che in quella canzone l’Uomo Ragno era un personaggio musicale; ognuno di noi gli aveva dato il proprio significato, perché le canzoni, come le poesie, appartengono a chi le ascolta, non a chi le ha scritte.
È una bella serie, fatta bene. Mi ha colpito, e mi ha riportato alla vita quegli anni, quei sogni, e quel senso di incertezza che, col senno di poi, non avremmo mai voluto perdere.
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