Dal Mediterraneo al Mondo alla Rovescia (o: Tutto viene dal mare)
Rivoluzioni e Mondi alla Rovescia allo Sponz Fest di Calitri (AV), ideato e diretto da Vinicio Capossela. L’eclettico Erri De Luca in conferenza su: Mediterraneo, religioni, guerre, paure, migrazioni, fraternità
In Italia il sud esiste, ma non esiste il nord, che è un’allucinazione geografica, siamo tutti a sud. Sono grato al nord per il baccalà, tutto il resto, però, è arrivato dal mare. Tutto il resto, nel quale faccio rientrare la nobile voce di cultura, è giunto dal Mediterraneo: l’architettura, la scultura, il teatro, la poesia, l’astronomia, la geometria, i numeri, persino il monoteismo. Noi eravamo politeisti, amavamo l’abbondanza: nel politeismo, intimamente democratico, nessuna divinità esclude l’altra. I Romani erano un concentrato del politeismo poiché tutti i popoli conquistati, avevano una rappresentanza delle loro divinità a Roma. Le famiglie romane avevano i lari penati personali, le divinità private di ogni famiglia, ma gli specialisti e buongustai erano i Greci, che avevano persino intitolato un altare al dio sconosciuto (segue un’ilare battuta in napoletano: fosse che passa qualcuno e si tocca e’ niervi, si arrabbia… almeno ce lo teniamo buono, lo sconosciuto!), il milite ignoto del politeismo. Poi è arrivato il monoteismo, esclusivo, che sradicandole dal cuore delle persone, ha cancellato le divinità precedenti, facendole scadere in mitologia, catturando spiriti, attenzioni e devozioni delle persone e sostituendole tutte: come ha fatto? Ci sono varie ipotesi. Anzitutto preciso che non sono credente, ovvero, escludo la divinità dalla mia vita, ma non da quella degli altri: se qualcuno si rivolge alla divinità, non ho nulla da eccepire, mentre l’ateo esclude la divinità dalla sua vita e da quella degli altri. L’ipotesi che mi affascina come non credente, dunque, è che quella divinità, per la prima volta, non essendo fissata in immagini, ha deciso di esprimersi con le parole, lasciandosi immaginare attraverso le parole. Il verbo più diffuso nell’Antico Testamento è dire: dice, disse, si ripetono spesso. La parola diviene strumento di comunicazione, è lo strumento a cui sono più affezionato, nel quale mi sono specializzato: mi sento cittadino del vocabolario della lingua italiana. Da questo punto di vista non rischio di essere mandato in esilio, è la mia cittadinanza, la mia residenza. Quella divinità decideva di manifestarsi con la parola, come forma di scambio e fatto compiuto, come fabbricante di realtà. A un certo punto della Scrittura sacra si dice: “Sarà luce”: chi lo dice? E subito dopo si legge: “E la luce fu”! Sono proprio quelle parole che hanno acceso la luce, che l’hanno fatta avverare. Tutti i sei giorni della creazione sono preceduti da ciò che dice la divinità, che di conseguenza, diventa qualcosa di compiuto. Le parole diventano fatti che creano la realtà, il traguardo massimo che la parola possa raggiungere, l’alta definizione di un’immagine prima sfocata, il prodigio di far diventare nitida la realtà. La realtà esiste intorno a noi, ma quando la pronunciamo, cioè aggiungiamo le parole per raccontarla, diviene nitida. Come quando scrivo e ogni volta lo scopro con sorpresa: inizialmente ho un’idea vaga di ciò che sto per scrivere, finché con le parole non diventa chiara, nitida, indelebile. Questo è il motivo per il quale mi piace raccontare: mentre scrivo una storia, comincia a muoversi, vengono fuori pensieri, associazioni, si cominciano a creare diramazioni, divagazioni, mi scappa da ogni parte. Mi sfugge perché è più grande di me, io la trattengo in un piccolo contenitore mentre la sto raccontando, anzitutto a me stesso. Perché possa decidere di raccontarla agli altri, una storia deve prima piacermi. Il potere della parola e la parola al potere La parola ha un potere enorme, meraviglioso, ma nel contempo può essere micidiale, perché le parole falsificano, ingannano. Il potere regolarmente spaccia un vocabolario falso, le cui parole, le persone meno attrezzate per assaggiarle, finiscono per inghiottire e fare proprie, assorbendole nel proprio organismo. Io invece, quando mi arriva una parola falsa del potere, la sputo (fa il gesto e segue applauso) e la sostituisco con quella più adatta. Quando il potere dice che ci sono delle ondate migratorie, io dico che è un vocabolario falso, perché con ondate indica una necessaria reazione della terraferma, che alza dighe, barriere, cerca di respingerle. Con quel vocabolario falso, si suscitano parole e azioni vere. Si tratta di flussi migratori, energie nuove che entrano nella popolazione anziana come la nostra e la rianimano, fornendole nuova energia. Nella scuola italiana negli ultimi 3 anni si sono persi 100.000 alunni, ciò vuol dire che neanche il rabbocco dei figli degli immigrati riesce a pareggiare il disavanzo. Sento parlare di invasione: gli Italiani che si sono trasferiti all’estero, pensionati soprattutto, ma anche molti giovani, sono ben di più dei nuovi arrivi. Non siamo un Paese invaso, bensì in via di desertificazione, diminuiamo costantemente di numero e di peso. Quando ero giovane io, eravamo i figli dell’abbondanza di nascita del dopoguerra, una generazione nata per ripopolare e, nel Novecento delle catastrofi, – io sono nato proprio in mezzo -, eravamo una generazione acculturata in massa, grazie a una scuola eccellente che sfidava l’analfabetismo e la disuguaglianza. Eravamo per la prima volta consapevoli della nostra cultura delle competenze, di essere in tanti, insofferenti verso l’autorità degli adulti. La prima attività politica della nostra generazione è stata destituire di fondamento l’autorità degli adulti, criticandola e umiliandola. Segno di una volontà di cambiamento, di inventare qualcosa e far scadere le precedenti autorità. Attualmente ci si trova in una situazione opposta: anche oggi, noi anziani siamo la maggioranza, è una condizione imbarazzante. Quando mi chiedono cosa penso dei giovani, il nostro futuro, rispondo: niente, perché i giovani sono il loro futuro! Io ho avuto e mi sono giocato il futuro! Ai giovani il futuro spetta biologicamente: avranno quello che cercheranno di orientare, se decideranno di lasciare un segno, mentre se decideranno di stare alla finestra, quello che inevitabilmente arriverà. È una destinazione obbligatoria, la scelta è tra indicare una direzione o lasciare che lo faccia il mondo, che va avanti veloce e a rotoli, e ci sorpassa. Nell’Enrico V di Shakespeare, il prologo si rivolge alle persone in sala: “noi possiamo nominare le cose, ma l’immagine dovete metterla voi. Quando noi diciamo cavalli, dovete metterceli che corrono, scalpitanti, quando diciamo il nostro re, vestitelo”. Questo è ciò che le parole riescono a fare. Quando talvolta vengono adottate dalla musica, riescono a creare dei buoni connubi, con un gesto di alleanza, che le rende indelebili. Allo stesso modo, succede per dei versi brutti che diventano indelebili sempre grazie alla musica: “finché la barca va, lasciala andare” o, “con 24.000 baci, felici corrono le ore”, servirebbero 7 ore di seguito per tutti quei baci o un semestre! Pensate poi a tutti i problemi che creerebbe darli tutti insieme, si dovrebbe ricorrere quantomeno alle cure dell’odontotecnico! Per fortuna la musica con le parole riesce a fare dei prodigi persino giudiziari. Una canzone della mia gioventù politica diceva: “compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza e picchiate con quello”. Diciamo che era un’incitazione a commettere reato, ma non è stata incriminata perché c’era la musica, che rendendola opera d’arte, la salva dalle conseguenze penali. La musica rende una dichiarazione aggressiva, compatibile con la comunità: io sono stato incriminato per una dichiarazione al telefono (dopo averne fatto dappertutto in posti pubblici) sulla linea dell’alta velocità in Val di Susa. Ho capito dove ho sbagliato: avrei dovuto rilasciare alla signora una dichiarazione cantata, con la musica, e così avrei evitato l’incriminazione! (Risate e applausi) La paura, sentimento sfruttato politicamente Io appartengo al secolo delle Rivoluzioni, lo strumento politico con cui sono state rovesciate tirannie, o si è tentato, imperi coloniali secolari, sono nate nuove nazioni e indipendenze. Il ventesimo secolo non è stato solo rivoluzionario, è stato anche il più pericoloso, quello più carcerario, degli stermini, dei campi di concentramento, della bomba atomica e con la maggior perdita di vite umane. Nel 1900 gli obiettivi principali delle guerre sono diventati i civili: uomini, donne, bambini, bombardati dall’alto, a caso. Io sono nato a Napoli, la città più bombardata d’Italia: mia madre mi ha raccontato dell’incubo dei bombardamenti che tutte le notti la svegliava. Nel 1943 il suo sonno (era costretta a dormire vestita) veniva interrotto di continuo dalle sirene degli allarmi, che la facevano scappare verso il rifugio, dov’era sempre tra le prime ad arrivare, preceduta solo da un generale in pensione. Nonostante la tragicità della situazione, le discussioni sugli allarmi, tramandate soprattutto dalle donne, avevano anche dei momenti di sdrammatizzazione che sembravano inadeguati, mentre rappresentavano invece, il modo migliore per smaltire lutti, ferite, mancanze. I racconti non possono essere tristi, catastrofici, persecutori, ma devono avere all’interno quella spezia che permette di narrarli ancora, sdrammatizzandoli. Le spezie comiche le sanno mettere bene solo le donne, per questo forse ho incorporato il suono dell’allarme di mia madre. Quando nel 1999 c’è stata la guerra contro la Jugoslavia, non potevo sopportarla, sono andato presso l’ambasciata jugoslava a Roma e ho chiesto di passare del tempo a Belgrado. Una notte di fine aprile, passando con un furgone attraverso l’Ungheria, sono arrivato a Belgrado, ho sentito il suono della sirena dell’allarme aereo, e ho finalmente provato il sentimento di essere in pace con il mio secolo. Ho fatto una sanatoria nei confronti dell’incubo della sirena degli allarmi aerei incistato nei sogni di mia madre: sono rimasto in un albergo all’ottavo piano senza elettricità e vi ho trascorso le notti più rumorose della mia vita. Non sono andato nei rifugi, ma ero lì perché disertavo dal Paese che bombardava. Quando al ritorno, mia madre rimproverandomi, mi ha chiesto i motivi del mio gesto, non necessario, come per lei che sotto le bombe aveva dovuto difendersi, le ho risposto che ero andato a cercarlo perché mi aveva trasmesso lei quella reazione nervosa, quella febbre nei confronti di un bombardamento di una città! Io considero la massima forma di terrorismo, il bombardamento aereo massiccio di gente inerme, sparandole addosso dei cannoni per distruggere il maggior numero possibile di vite, prese a casaccio. Il Novecento è stato un secolo pieno di pericoli per gli stermini, la bomba atomica e la possibilità in qualsiasi momento, di distruggersi a vicenda con una guerra atomica. E quale poteva essere l’antidoto, se non quello di non avere paura? Era una forma di educazione: avere paura era da codardi, il coraggio era una virtù obbligatoria. Oggi si specula sul sentimento della paura, a Napoli ci sono le paura inventate, si suggerisce di cosa avere paura, oggi ci si compiace di avere paura. Una delle paure più diffuse è quella dello straniero. Facciamo un esperimento: andate per strada, prendete uno straniero, assicuratevi che sia povero (se è ricco non vale) e portatelo a casa. Davanti alla porta invitatelo a entrare, poi ditegli di uscire, subito dopo, di nuovo di entrare, e così ancora diverse volte: vedrete che dopo un po’ non avrete più paura (risate e applausi)! Sono stato anch’io un emigrato per lavoro, ho fatto l’operaio in fabbrica a Torino. Sotto il portone dell’edificio in cui abitavo c’era un cartello: Non si affitta ai napoletani, dandoci l’onore di coprire tutto il sud. Sono stato operaio anche a Milano e in Francia, ma quando emigravamo noi, eravamo controllati dalle gengive agli occhi, per verificare se ci fosse il glaucoma, in America motivo di respingimento. Le persone respinte erano al massimo il 2 per cento, venivano accolti quasi tutti. Migranti senza via d’uscita, peggio degli schiavi L’essere umano non ha mai viaggiato così male come ora, sulla superficie del nostro Mediterraneo. Nemmeno gli schiavi subivano ciò che subiscono oggi i migranti. Gli schiavi erano merce che doveva arrivare in buone condizioni, perché solo così chi li vendeva avrebbe potuto guadagnare. Oggi i migranti pagano prima di partire, sono già stati spremuti in tutti i modi possibili. Da quella merce i trafficanti hanno guadagnato tutto ciò che potevano spillare e non si interessano più al loro destino. Li fanno salire seminudi, senza bagaglio, senza scarpe, né acqua, su canotti con una sola camera d’aria costruiti con materiale grezzo con motori da 40 cavalli. L’unico modo in cui quei canotti di dieci metri riescono a guadagnare il largo, stracolmi di almeno 150 persone, è che il mare sia molto piatto, altrimenti non ce la fanno, tornano indietro. È questo il motivo per il quale i trafficanti non appena il mare è piatto, spediscono al largo più canotti possibili. Se accade qualcosa entro le 12 miglia, acque territoriali, nessuno conta quei poveri migranti. Mi sono chiesto che cosa muova un giovane che non ha mai visto il mare, una donna delle campagne, spinta di notte a salirci, senza spaventarsi: non possono ripensarci, una volta deciso il carico, non si torna indietro, quelli che si mostrano recalcitranti, subiscono spari nelle gambe o dove capita. Ma non è solo questo: lo fanno perché, salendo su quei canotti non hanno più la prigione intorno, non hanno più i carcerieri, i torturatori, gli stupratori, non hanno più addosso tutta l’Africa che li ha sfruttati, decimandoli. Liberté, Egalité, Fraternité La fraternità, che mi sta molto a cuore, non ha che a che vedere con alcuna lotta o conquista, è la precondizione per ottenere sia la libertà che l’uguaglianza. È un sentimento di solidarietà che tiene insieme le persone, la Rivoluzione francese l’ha messa in mezzo alla trinità laica, come statuto. Ma se la libertà e l’uguaglianza si può lottare per ottenerle, così non è per la fraternità, un’energia, un sentimento che unisce le persone e le rende parte di un unico universo. Non mi faccio sfuggire l’occasione per chiedergli come consideri il femminicidio È una vigliaccheria maschile, il ricorso a una pretesa superiorità fisica che dovrebbe fondare la sottomissione femminile, sulla forza e la prepotenza. A noi hanno insegnato che toccare una donna è un atto di vigliaccheria, oggi pare che “si possa fare”! È una prepotenza da cui le donne devono difendersi, ribellarsi: oggi uno stalker, un persecutore, lo fanno stare pochissimo in gattabuia, poi lo scarcerano. Tutto questo perché la giustizia non considera la persecuzione di una donna, come una gravissima lesione della vita civile.
Floriana Mastandrea
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